La filosofia della vita

Erano i primi anni del Novecento quando due filosofi post- hegeliani del calibro di Dilthey e Misch, tanto lodevoli quanto erroneamente elitari, portavano avanti la loro tesi su “La filosofia della vita“. Un’espressione che per molti potrà apparire estremamente banale nella sua tautologia, come se nella stessa etimologia della parola “philosophia” non fosse già contenuta l’essenza della vita: l’uomo che tende incondizionatamente, smaniosamente e incessantemente al sapere.

L’immagine che mi sovviene adesso è quella de “La creazione di Adamo“ che adorna la cupola della Cappella Sistina: anche in questo caso, Adamo tende il braccio a Dio, l’emblema dell’onniscienza, rappresentando ogni uomo che, come desiderio più recondito, ha quello di arrivare alla comprensione di tutto lo scibile.

Il sapere è quindi la vita?

Facile essere dei Ponzio Pilato della filosofia, uscirsene con definizioni scarne e blande pur di non sforzare troppo la mente, come se pensare fosse un atto talmente dispendioso di forze da doverci limitare alle banalità più becere. Se è così, lasciamo allora il compito di “pensare” ai veri filosofi, come quel Dilthey e quel Misch di cui parlavo prima, che per primi asserivano come la vita sia una cognizione fondamentale, come il più alto scopo dell’Arte sia il trattare sulla pagina bianca il quantitativo più alto di “vita” che esista.

Ed eccoci arrivati alla domanda clue: di cosa parla un romanzo?

Il primo elemento di cui tanto si tratta è “l’ombra”, come Gadda definiva “quei lividori caravaggeschi”, il misterioso e il turpe, l’osceno di Rabelais scritto in chiave moderna è diventato tipico, o, per dirla allo stesso modo di una scrittrice snob: “un manierismo”.

Prendiamo un altro leit motiv: il sonno, la sfera onirica. Ogni artista moderno che si rispetti deve necessariamente ambientare qualche scena di notte, ma perché?

“La notte porta consiglio”?
“La notte crea un alone di tenebrosità a cui non si può rinunciare?”
“Perché i crimini dei polizieschi si commettono sempre a notte fonda?”

Perché scegliere di rappresentare una scena di notte lascia con il groppo in gola, non fa dormire, perché la notte è inevitabilmente più attraente del giorno. O forse lo era.

Ma come “dulcis in fundo” eccolo, l’elemento che permea qualsiasi opera: l’Amore. L’amore giganteggia e rende questi libri moderni noiosi e monotoni, quest’eccessivo indugiare è oggettivamente accettabile solo nel campo dei romanzetti rosa, non di certo in un best-seller. Il punto è che tutti questi escamotages per imbellettare un romanzo lo rendono datato se non rivelano nient’altro.

L’amore, l’ombra, i sogni, devono restare funzionali al testo, devono aiutarlo, non saturarlo. Prendendo in considerazione “I Promessi Sposi“, ciò che conta alla fine è l’amore di Renzo e Lucia? La loro storia è tutto quello che ha da dirci il romanzo?

Per carità, Manzoni si starà dimenando nella tomba solo leggendo le mie parole.

I Promessi Sposi” sono prima di tutto un romanzo di propaganda cristiana, ci raccontano dell’uomo inserito nella società, costituiscono una critica eccelsa del reale analizzando le personalità dei vari personaggi, la storiella del matrimonio è solo funzionale alla diegesi del racconto.

Ecco cos’è la vita nel romanzo: è lasciarlo respirare, non caricarlo di eccessivi ornamenti che finiscono per sostituirlo e sopprimerlo ingiustamente: basta con l’essere dei Ponzio Pilato della letteratura.